Nel 1984, per l’ennesima volta fu Richard Percudani a fornire una dritta incredibile. Secondo lui l’uomo giusto per Rieti si chiamava Joe Bryant, uno che nel 1976/77, quando la Brina era in A2, aveva disputato la sua prima stagione nell’NBA segnando, 7.5 punti a partita vicino a Julius Erving e Darryl Baby Gorilla Dawkins, nei Philadelphia 76ers che persero la finalissima contro i Portland Trail Blazers di Bill Walton.
La carriera di Bryant nell’NBA era poi proseguita per altri due campionati a Philadelphia, quindi, nel 1979/80, arrivò il trasferimento ai San Diego Clippers, dove ebbe le stagioni migliori (quasi 12 punti di media), infine nel 1982/83 ci fu il passaggio agli Houston Rockets con cui viaggiò ancora a 10 punti di media in 81 partite.
Stranamente però, Bryant nel 1983/84 non ebbe alcuna chiamata dall’NBA, malgrado le buone statistiche registrate nelle stagioni precedenti. Generalmente infatti, prima dell’addio definitivo ai pro, le medie dei giocatori calavano progressivamente tra i 4 e i 2 punti a partita e solo a qeul punto, per chi lo voleva, arrivava il momento di valicare l’Atlantico. Invece Bryant, che aveva appena 30 anni, era fermo già da una anno. Non aveva mai subito seri infortuni eppure l’NBA lo ignorava. Purtroppo, aveva ormai appiccicata addosso l’etichetta di journeyman: cioè di viaggiatore, di giocatore sempre con le valigie pronte. Perché? Bryant, soprannominato Jelly Bean, cioè caramella gommosa, non era il tipo di giocatore amato dagli allenatori. Il nomignolo gli derivava dalla naturale tendenza a ingrassare, anche perché gli piaceva poco allenarsi. Non era un atleta esplosivo però possedeva tecnica e tiro sopraffini. Sapeva fare canestro come e quando voleva e questa eccessiva fiducia in se stesso gli faceva odiare prima di tutto la difesa e poi le tattiche e le strategie, portandolo spesso a uscire dagli schemi. Per lui l’unico allenamento ammissibile era quello al tiro. Tutto qua. Bryant era comunque un giocatore super ma nell’NBA dell’epoca non era poi così difficile rimpiazzarlo.
«Molto dipendeva pure dal fatto che – aggiunse il giocatore stesso - all’epoca le squadre NBA erano meno di 20 mentre oggi sono 30. Quelle 10-12 squadre in meno significavano 150-170 posti disponibili in meno rispetto ad oggi per cui, siccome il ricambio dalle università era sempre alto e costante, l’avvicendamento di giocatori era più elevato e quindi era possibile che campioni come Joe Barry Carroll, George Gervin, Bob Mc Adoo, Spencer Haywood, Darryl Dawkins e tantissimi altri terminassero la carriera in anticipo rispetto ad oggi e venissero più facilmente a giocare nello spaghetti circuit, come era chiamato allora il campionato italiano. Oggi tutto ciò è impossibile: io stesso avrei avuto maggiori chances di restare più a lungo nell’NBA e sarei arrivato in Europa più tardi. Però, visto come sono andate le cose, non mi lamento proprio. Anzi».
Bryant venne segnalato in Europa a qualche squadra ma la sua nomea di giocatore tatticamente indisciplinato fece storcere la bocca agli allenatori europei, dimentichi che il livello di gioco era inferiore. Ancor più incredibile, e quindi meritevole di elogio, il fatto che solo la Sebastiani fosse stata così pragmatica da voler dare almeno uno sguardo a questo giocatore, avendone intuito le grandi potenzialità.
Bryant esordì con la maglia della Sebastiani a fine agosto nel torneo di San Benedetto del Tronto che si disputava all’aperto presso il Tennis Club Magioni, sulla cui terra rossa veniva appoggiato il parquet. Alla prima partita, contro Napoli, erano presenti molti reatini, in vacanza da quelle parti o venuti apposta. C’era anche qualche osservatore di altre società visto che, alla fine, la voce dell’arrivo di Bryant si era sparsa e il giocatore destava molta curiosità. Soprattutto nella possibile concorrenza.
Bastarono pochi minuti per capire che Joe era super: una vera macchina da canestro. Il coach Nico Messina, temendo che giocasse troppo bene e venisse segnalato ad altri, nel secondo tempo non lo impiegò quasi mai e fece bene. A Bryant, che invece non si divertiva se non giocava, spiegò solo: «Tutto o.k. Joe, ma adesso voglio vedere i giovani».
Dopo la doccia, Attilio Pasquetti colse Bryant che, durante lo svolgimento della seconda partita della serata, stava parlando con un noto osservatore. Italo Di Fazi intervenne subito e allontanò con modi bruschi e decisi l’intruso. Bryant venne accompagnato in albergo e praticamente sequestrato in camera da Italo e Attilio che diedero ordine tassativo di staccare il telefono della sua stanza e da quel momento non lo mollarono più un minuto fino alla firma del contratto. La squadra ora era completa. A Rieti era arrivato un altro fenomeno.
Joe Bryant, bravo quanto estroso, difficilissimo da gestire in campo perché capiva solo il tiro e lo spettacolo - e Dio solo sa quanto tirasse bene! - era un monopolizzatore del gioco e gli altri giocatori non sempre vedevano palla per cui, quando capitava tra le loro mani, non si lasciavano certo sfuggire l’occasione per un tiro. Chissà mai quando sarebbe ricapitata una tale fortuna?
Malgrado ciò Jelly Bean rinverdì in parte i fasti di Sojourner sul piano delle popolarità, della simpatia e dello spettacolo. Un po’ di meno su quello del gioco. Innamorato soprattutto di se stesso, si esaltava nel compiere prodezze che mandavano in visibilio il pubblico, ma che potevano mettere in crisi gli equilibri tattici della squadra.
«Prima di una partita – racconta Phil Melillo – spesso Joe entrava nello spogliatoio dicendo ‘oggi ne faccio 30’, oppure ‘oggi ne faccio 40’. Un giorno disse ‘oggi ne faccio 70’ e allora Sanesi, seduto vicino a me, mi sussurrò ‘col c…avolo che oggi gli passo la palla!’. Voglio però precisare - aggiunge Melillo – che per me è stato un onore giocare con un campione come Bryant e che a Rieti mi sono divertito tanto. Sono stato benissimo con tutti a cominciare da Sanesi che ritengo un giocatore sottovalutatissimo».
In un’occasione, durante una partita a Rieti, la palla uscì dal campo proprio vicino a Nico Messina. Andò a raccoglierla Bryant che, però, aveva già fatto troppi tiri per cui il coach gli urlò: «Joe, passa la palla!».
Tutti gli spettatori lo sentirono ma Jelly Bean sorridendo rispose: «Ma io sono un tiratore coach!».
Messina, mani ai fianchi, nel suo tipico gesto, allargò le braccia e scosse la testa rassegnato, come per dire: «Cosa ci posso fare?».
Giancarlo Asteo a volte diventava pazzo e quando Bryant andava per l’ennesima volta fuori dagli schemi per improvvisare personalissime soluzioni di tiro, allora puntuale il coach romano allargava le braccia rassegnato esclamando: «Eccolo là, gli è ripijato n’antro attacco de negrite!». Naturalmente senza alcun sottinteso razzista.
Joe Bryant disputò 60 partite in due stagioni alla Sebastiani e ne vinse almeno una decina con un tiro all’ultimo secondo. Ebbe 35 punti di media a partita. Andò 13 volte sopra i 40, 5 volte oltre i 50 e 2 volte sopra i 60, segnandone 61 contro la Fortitudo Yoga Bologna. Fu croce e delizia degli allenatori i quali però sapevano bene che quand’era in serata di grazia poteva battere chiunque giocando da solo.
Bryant fu prezioso per Rieti anche nel 1987, quando l’allora Corsa Tris era in piena lotta per la salvezza. Nell’ultima partita di campionato, al Palaloniano, era in arrivo la Viola Reggio Calabria, in cui militavano sia Jelly Bean che Gustavo Tolotti, la cui cessione aveva letteralmente salvato in estate i destini economici della Sebastiani. Per la Corsa Tris era di vitale importanza vincere. Incredibilmente quella sera Joe Bryant, giocò molto male, era irriconoscibile e sbagliava anche le cose più facili: passaggi in tribuna, infrazioni, non segnava neanche i tiri liberi. Forse per l’emozione di essere tornato a Rieti? Ma ad ogni errore Jelly Bean sorrideva, strizzava l’occhio e mandava baci al pubblico. Alla fine l’uomo da 35 punti a serata non ne racimolò neanche una diecina. Sull’altro fronte Lampley ne segnò 25 spalleggiato da Scarnati (21) e Sanesi (17). La Corsa Tris vinse 84-79 e fu salva. Terminata la partita ci fu una pacifica invasione di campo, ma gli ultras di Rieti invece di festeggiare i propri beniamini portarono in trionfo Joe Bryant.