Nel 1980, per rimpiazzare Elio Pentassuglia, il presidente Renato Miliardi desiderava un tecnico moderno che sapesse valorizzare la nidiata di giovani sfornata dal vivaio: il reatino Luca Colantoni, il ligure Mauro Bonino e il siciliano Angelo De Stasio. Di quest’ultimo, in comproprietà con la Virtus Sinudyne Bologna, si diceva addirittura che fosse il nuovo Brunamonti. Del resto era importante valorizzare i giovani anche perché era diventato impossibile affacciarsi sul mercato visto che i grandi nomi erano praticamente inavvicinabili. Addirittura un grandissimo ex azzurro, per venire a Rieti aveva chiesto un lautissimo ingaggio giustificandolo con una allucinante quanto improbabile indennità Sud. Impossibile riferire la risposta di Italo Di Fazi.
Milardi non trovò in Italia un allenatore che lo soddisfacesse: il presidente voleva un tecnico capace di insegnare basket oltre che gestire una squadra perciò, dopo lunga ricerca, scovò in Svizzera il nuovo coach della Ferrarelle. Il nome, impronunciabile, Edward Klimkowski, tradiva chiare origini polacche ma il tecnico, Ed per gli addetti ai lavori, era statunitense al cento per cento. Era giovane e da poco arrivato in Europa, in precedenza era stato anche in Svezia, a spezzare il pane del basket a stelle e strisce, aveva anche scritto alcuni manuali non solo di tecnica (sulla press defense) ma anche di psicologia applicata al basket. Era pure un forte motivatore. Proprio quello che ci vuole, suggerirono al presidente gli addetti ai lavori.
La mentalità del coach era quella tipica del basket universitario: molta didattica, lavoro certosino sui fondamentali, tanta strategia. Grazie a Klimkowski si videro a Rieti le prime difese avveniristiche come la triangolo e due, i primi abbozzi di match-up. Non solo, per la prima volta al Palaloniano si vide eseguire una pratica oggi comunissima come lo stretching ma all’epoca a dir poco avveniristica. «Certe metodologie di Klimkowski – è sempre Brunamonti che parla - le ho continuate ad adottare con profitto anche durante il resto della mia carriera. Alcune erano molto all’avanguardia». Affascinante per i palati fini, i tifosi che andavano ad assistere agli allenamenti non credevano ai loro occhi: Klimkowski teneva delle vere e proprie lezioni di basket che li mandavano in brodo di giuggiole. Non altrettanto felici erano i giocatori, soprattutto i meno giovani, abituati ai ben più blandi ritmi di Pentassuglia. «Per una parte di noi – aggiunge Brunamonti – il cambio di sistema di allenamento dopo quattro stagioni con Elio fu in ogni caso traumatico».
Il problema era che, tipica pecca degli americani, il buon Ed era troppo pragmatico e rigido: il suo basket era bello, fatto di elevata intensità, però non teneva conto del fatto che in squadra c’erano nonno Pino Danzi e Zio Willie (32 anni ma forse anche qualcosa di più: la sua vera età è sempre stata oggetto di leggenda) il quale si era costruita una carriera giocando in certo modo.
Purtroppo i difetti di tanti buoni allenatori statunitensi (anche NBA) che hanno fallito in Europa sono stati proprio la poca elasticità, la cieca fede nell’applicazione dei propri principi, quel pizzico di presunzione tipica del colonizzatore. Insomma, non si possono esportare in blocco principi validi negli USA. L’Europa invece è un’altra realtà, bisogna adattarsi. Forse per questo l’unico coach a stelle e strisce ad avere avuto successo in Europa è stato Dan Peterson, che però aveva già sbattuto la testa contro certe situazioni in Cile.
In pratica, il basket teorizzato da Klimkowski era buono per Brunamonti, Sanesi, Blasetti e i giovani, mentre al posto di Sojourner ci sarebbe voluto un dinamico pivot fresco di università. Ma tutte queste cose si sarebbero scoperte nel corso del campionato.
Intanto l’impatto iniziale fu semitragico: i metodi di Klimkowski erano quelli di un sergente di ferro di West Point e tra lui e il buon Zio Willie, che per carattere amava scherzare pure in allenamento per sciogliere la tensione, cominciò a correre cattivo sangue anche per questioni extra-sportive. L’allenatore non mandava giù la limitata autonomia del pivot (almeno secondo quanto pretendeva il tecnico) ed il suo stile di vita. Una sera Sojourner si presentò in ritardo all’allenamento: il tecnico non lo fece neanche spogliare e lo rimandò direttamente a casa. Forse Sojourner, ma questo non l’ha mai confermato, pensò di andarsene. Per fortuna il vaso non traboccò mai, neanche quella sera in cui Willie, andato a trovare la baby sitter di Klimkowski, lanciò qualche sassolino alla finestra per richiamare l’attenzione della ragazza. Sfortunatamente a sentire il rumore dei sassi sui vetri fu il coach che, affacciatosi alla finestra, vide una grossa ombra nera sparire nel buio del giardino. Per fortuna non riconobbe mai Willie, anche se gli rimase per sempre il sospetto che si trattasse del suo pivot.
Anche Pino Danzi si trovava ad affrontare difficoltà insuperabili «Per alcuni di noi – ricordava – i ritmi voluti da Klimkowski erano infernali. Faceva dei cambi continui. Io per esempio non facevo in tempo a scaldarmi che già mi toglieva dal campo. Una volta a Brescia sarò entrato e uscito una quindicina di volte. Alla fine però Ed comprese che non poteva giocare in quel modo e cercò di cambiare. Comunque di basket ne capiva, era solo un testardo. Elio invece si adattava agli uomini che aveva, quindi ci gestiva meglio».
A causa di tutti queste difficoltà di adattamento i risultati della Ferrarelle furono buoni ma non al livello dei due campionati precedenti. Addirittura un paio di votla Klimkowski fu sul punto di essere esonerato ma poi arrivava sempre una vittoria a salvarlo, compreso un eccezionale successo contro Varese, dell'ex Elio Pentassuglia. Segno che la squadra, nonostante tutto non gli giocò mai contro, pur faticando ad adattarsi ai suoi sistemi. Lasciata Rieti, Klimkowski abbandonò il basket e si gettò in un business completamente diverso: la vendita di moderni stand da esposizione nelle fiere e nei mercati internazionali. Ottenne un grande successo e divenne molto ricco. Buon per lui.