Di Fazi Italo
Nazione: Italia
Reatino: Si
 

Negli anni ’60 la Sebastiani era formata in parte da giocatori reatini e in parte da giocatori provenienti da Roma, principalmente dalla Stella Azzurra e dalla Lazio, come ad esempio, l’ex nazionale De Carolis. Anche gli allenatori (Barilari, Ferrero, Perrella, Volpini) provenivano dalla capitale. Nel frattempo Italo Di Fazi, che aveva giocato nella Sebastiani negli anni ’40 e ’50, era diventato dirigente della società.
Classe 1926, ragioniere, dipendente della Cassa di Risparmio di Rieti, Italo ha dedicato l’intera esistenza alla pallacanestro, anche se le sue preferenze sportive inizialmente andarono all’atletica e al calcio. S'interessò di palla a spicchi in onore del fratello Stelvio, giocatore di pallacanestro, scomparso prematuramente e da quel momento non avrebbe più smesso. E’ stato anche allenatore negli anni ’60.
Come tante persone di carattere, Di Fazi era un personaggio difficile, brusco ma profondamente umano. I maggiori risultati li avrebbe ottenuti nel ruolo di general manager della Sebastiani, che gli permise nel corso di lunghi anni di poter dare del tu ai massimi responsabili nazionali del basket, di fronte ai quali fece sempre valere le ragioni della squadra e del suo pubblico.
Un aneddoto del 1977 fotografa bene la schiettezza del personaggio. La nuova coppia di stranieri della Sebastiani, composta da Willie Sojourner e Cliff Meely, debuttò al torneo di Todi dove giocava anche la Virtus Sinudyne Bologna che venne stritolata in finale dall’Althea Rieti. Ad assistere alla partita c’era lo storico general manager di Milano, nonché ex allenatore, Cesare Rubini, venuto a osservare gli emiliani, il quale però fu immediatamente stregato dalla coppia di stranieri della Sebastiani, tanto che a fine partita Italo Di Fazi gli rivolse la celebre battuta ormai passata alla storia: «Cesare, ha ‘istu che americanitti che haio reportatu?».
«Italo era rispettatissimo – ricorda Domenico Zampolini – era l’unico a potersi permettere di rivolgersi in questa maniera a personaggi così importanti. E lo sapeva. Una volta sfotté uno dei massimi dirigenti di serie A1 perché si tingeva i capelli. Ma non chiedetemi chi fosse».
Un personaggio vulcanico che una ne faceva e cento ne pensava. Nel 1985, ai tempi di Bryant e Gay, durante un’infuocata partita contro Venezia, a un certo punto i lagunari erano avanti di 9 punti e sembravano irraggiungibili. Improvvisamente Di Fazi, seduto al tavolo degli ufficiali di campo in qualità di accompagnatore, iniziò a gesticolare e ad urlare: «Fermi tutti!».
Cos’era successo? Semplicemente era saltata la corrente che alimentava il tabellone elettronico segnapunti ed il cronometro. Si cercò di riparare il guasto. Lino, il custode del Palaloniano, che aveva già capito l’antifona, finse di armeggiare per un po' col quadro dei comandi elettrici. Qualcun’altro finse una telefonata all’elettricista che, essendo domenica, ovviamente non c’era. Intanto i minuti passavano, i veneziani si raffreddavano mentre Rieti riprendeva fiato. Quando gli arbitri stavano per decidere di passare a punteggio e cronometraggio manuali con le famigerate palette, Di Fazi fece un cenno a Attilio Pasquetti, altro partecipante alla sceneggiata, il quale sapeva cosa fare poiché il cronometro era stato realizzato su suo incarico dalla Texas Instruments. Attilio smanettò un po’ con l'apparecchio e poi, approfittando di un attimo di distrazione, rimise in sede la spina del tabellone elettronico sotto il tavolo della giuria, che era stata staccata una diecina di minuti prima dallo stesso Di Fazi. La corrente ritornò miracolosamente. Finalmente si tornò a giocare, ma la trance agonistica di Venezia era ormai esaurita. Rieti rimontò e vinse.
Di Fazi aveva straordinaria abilità nel giudizio degli uomini e quindi nella scelta dei giocatori. In pratica non ne avrebbe sbagliato uno e, soprattutto, ne avrebbe sempre capito la psicologia ricavandone il miglior risultato possibile. Non concesse mai molto alla popolarità, pagando così prezzi molto alti nei momenti difficili. Italo Di Fazi, i cui problemi di cuore si erano accentuati, lasciò la Sebastiani nel 1987, dopo la rocambolesca salvezza della Corsa Tris. Questo burbero personaggio che parlava in dialetto con gli americani, che incredibilmente lo capivano, rappresentava il basket fatto in casa. La sua esperienza, la sua furbizia, la sua conoscenza della pallacanestro italiana non erano tramandabili a nessuno. Profondo conoscitore di uomini, era difficile ingannarlo e siccome rispettava la parola, aveva saputo trovare referenti importanti. Dava del tu all’intera pallacanestro italiana e a tutti i capi degli organismi federali, che apprezzavano la sua competenza.
«Quando qualcuno ti offre una cosa conveniente ti devi sempre chiedere perché lo fa» era la sua filosofia. Di conseguenza Il suo carattere sospettoso non era di quelli che gli facessero trovare tanti amici. I reatini lo hanno apprezzato, ma ancora ci si domanda se lo hanno amato.
Toccato negli affetti dalla morte della moglie Adriana, Di Fazi seppe reagire continuando la sua intensa attività. Il suo tramonto è coinciso con il declino di tutto il movimento cestistico reatino. I due figli, Claudio e Paolo, sia pure su un altro piano, hanno fatto un buon lavoro con altre società.
La scomparsa di Italo Di Fazi nel 1993 ha aperto un vuoto impossibile da colmare impoverendo di colpo il panorama dei dirigenti sportivi reatini capaci di operare a livello nazionale.
«Italo è stato il più grande uomo di sport che io abbia mai conosciuto – ha detto Renato Milardi – con la sua padronanza della materia avrebbe potuto arricchirsi. Altro che i grandi manager del nord Italia. Italo Di Fazi resterà sempre nella memoria di chi lo ha conosciuto».

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