Nel 1979, a rimpiazzare Zampolini, arrivò da Roma Pino Danzi, scovato grazie al buon fiuto di Italo Di Fazi, che gli telefonò mentre stava per partire per le vacanze. Dopo un lungo girovagare per la serie A (Lazio, Udine) Danzi era tornato nella capitale dove lavorava e giocava per il Banco Roma. Anche sua moglie, Titti Timolati, giocava a basket, addirittura in nazionale. «Fatte le dovute proporzioni – scherza oggi Danzi – lei era più forte di me».
Pino accettò con entusiasmo: da quel momento, per due anni, ogni sacrosanto pomeriggio, dopo aver staccato dal lavoro, sarebbe salito in auto per percorrere la Salaria in direzione di Rieti. Allenamenti la mattina, in estate, durante il precampionato, e d’inverno quando il lavoro lo permetteva. Tutte ferie mangiate. Le trasferte infrasettimanali di campionato e Coppa Korac? Altre ferie mangiate. Molto differente dal basket iperprofessionalizzato dei tempi successivi.
«All’epoca – spiega Danzi – si giocava per il gusto di giocare, c’era piacere ad affrontare dei sacrifici. Ora è tutto troppo arido. Io facevo 200 chilometri al giorno, ho consumato un paio di auto sulla Salaria e due anni di ferie. Dei ritmi che il basket di oggi non consentirebbe assolutamente di sostenere».
Tecnicamente Danzi era un’ala-pivot dai mezzi fisici normali. Ma era intelligente, conscio dei suoi limiti, mano educata, buoni fondamentali e senso della posizione. Era evidente che, pur essendo un buon giocatore, non valeva Zampolini e i tifosi si interrogavano: «Basterà?».
Ebbene, il buon Pino bastò eccome e, sotto le ali protettrici di Willie Sojourner e Lee Johnson seppe dare un preziosissimo contributo alla conquista della coppa Korac.
Anche la stagione successiva, con la Ferrarelle, fu più che buona ma, al termine, Danzi dovette mollare perché i ritmi del campionato e della coppa Korac rischiavano di farlo licenziare dalla banca. Un vero esempio di serietà, professionalità e intelligenza cestistica.