Roberto Brunamonti è nato a Spoleto nel 1959 e, insieme ai più anziani Sanesi e Zampolini, diede vita a un trio di giocatori eccezionali che si completavano l’uno con l’altro.
Il suo esordio in serie A a 17 anni, mentre stradominava a livello di campionati giovanili insieme al concittadino Domenico, contro l'Ausonia Genova, è descritto nel profilo di Aldo Giordani, il quale ne intuì immediatamente le potenzialità. Purtroppo i campioni come Roberto si apprezzano maggiormente quando non ci sono più. Se ne accorsero tutti quando la Sebastiani, nel 1982, dopo aver perso Zampolini e Cerioni, in un colpo solo diede l’addio a Sojourner e a Brunamonti. Quando c’erano loro in campo tutto sembrava facile e a portata di mano mentre, una volta andati via, ogni cosa diventò difficilissima, soprattutto quando fu spezzato in colpo solo uno dei più grandi assi plamaker-pivot della storia del basket italiano.
Dunque, nel 1982, Brunamonti andò alla Virtus Bologna per circa 400 milioni, il cartellino di Maurizio Ferro (un buona guardia tiratrice) e il prestito di Alessandro Daniele (promettente ed esplosivo pivot di 2.10). La contropartita complessiva fu valutata intorno agli 800 milioni anche se alcuni dirigenti della società avrebbero preferito accettare l’offerta della Scavolini. Comunque alla fine si decise per Bologna.
Esiste però una legge del contrappasso: infatti, se per Rieti l’operazione non fu la più vantaggiosa, lo stesso non può dirsi per il caro Roberto che, tra le tante squadre che lo cercarono quell’estate, andò a finire di sicuro nella migliore di tutte. La carriera di Brunamonti sarebbe stata ugualmente fulgida anche a Pesaro, Roma o Varese ma il blasone e la storica tradizione delle V nere non erano assolutamente paragonabili. Tant’è che il playmaker di Spoleto, dopo aver chiuso la carriera agonistica sotto le due torri, già appesantito di gloria, scudetti e coppe internazionali, ha continuato a mietere successi, una volta passato dietro la scrivania, in qualità di vicepresidente della Virtus Bologna.
Viene da pensare che il presidente Renato Milardi avesse previsto tutto questo e che, in barba a proposte tecnicamente ed economicamente più allettanti, avesse innanzitutto voluto premiare il più grande campione cresciuto in casa reatina. Del resto non fu certo la prima volta che Milardi aveva fatto del bene a qualcuno. «Credo anch’io – sostiene Brunamonti – che Milardi avesse voluto premiarmi così. Nelle settimane precedenti avevo parlato con i dirigenti della Scavolini. Le loro proposte erano molto interessanti ma, obiettivamente, il fascino della Virtus rappresentava qualcosa di più». Il senno di poi lo ha confermato.
Il trasferimento a Bologna rappresentò quindi il giusto premio per un ragazzo dotato di classe ma anche di grande forza di volontà e determinazione a cui il destino non risparmiò duri colpi. Lasciata Spoleto all’età di 15 anni, nel giro di poco tempo Roberto perse il padre e la madre e dovette sopportare altre complicate vicissitudini familiari. Per lui Aldo Alvisini, Italo Di Fazi e Renato Milardi rappresentarono, durante il suo periodo reatino, una vera e propria famiglia che fu ampiamente ripagata per aver creduto in un giovanissimo dotato di mezzi fisici normali – lo avete mai visto fare una schiacciata? – compensati però da una fervida intelligenza e da una determinazione incrollabile.
Brunamonti è il classico soggetto che avrebbe potuto eccellere in qualsiasi sport, proprio grazie alla sua grande intelligenza. Ad esempio, prima di venire a Rieti si stava distinguendo anche come tennista (è stato campione umbro) ma poi la pallacanestro prese il sopravvento. Abbiamo parlato di mezzi fisici normali ma anche di grande capacità di applicazione che si estrinsecava nelle lunghe ore passate in palestra, ben più del necessario, per perfezionare il proprio bagaglio tecnico. Ad esempio, chi ha buona memoria ricorderà che, nelle prime stagioni in serie A, Roberto non possedeva un gran tiro da fuori eppure, ora dopo ora, giorno dopo giorno in palestra, riuscì a diventare anche un pericoloso cecchino dalla distanza.
Ragazzo serio, maturo e leale, non ci sono aneddoti particolari e coloriti da raccontare su di lui, salvo una sbandata sentimentale quand’era ancora adolescente dalla quale Di Fazi, Alvisini, e Pentassuglia riuscirono a rimetterlo in carreggiata. Brunamonti fu sul punto di piantare tutto. Insomma un uomo che ha dimostrato che con l’umiltà e la forza di volontà si può raggiungere qualsiasi obiettivo. Più facile a dirsi che a farsi.
Roberto ricorda con affetto e simpatia Italo Di Fazi. Nel 1980 era solo un ragazzo di 21 anni che, comunque, riteneva plausibile chiedere un ritocco del proprio ingaggio: «Niente cifre iperboliche, per carità – racconta l’ex playmaker di Rieti – visto che all’epoca non giravano poi tantissimi soldi. Però, anche se giovane, un seppur modesto aumento pensavo di meritarmelo. Avrei comunque accettato qualsiasi offerta da parte del club». Non a torto, del resto. Roberto sapeva infatti che altre società avevano bussato più volte alla porta della Sebastiani per acquistarlo inoltre, bene o male, era uno degli artefici del miracolo di Rieti e, infine, da poco era anche divenuto vicecampione olimpico. Brunamonti ne parlò per telefono a Italo Di Fazi, il quale gli disse di venire direttamente a casa sua per discuterne.
Come il ragionier Fantozzi, che ripeteva cosa dire prima di entrare nella stanza del capoufficio per ottenere l’aumento, salvo poi impappinarsi una volta entrato, Roberto, durante il viaggio da Spoleto a Rieti, si preparò il suo bravo discorsetto per giustificare la validità delle proprie richieste. Purtroppo, appena arrivato a casa Di Fazi, trovò una bruttissima sorpresa: un’ambulanza. Infatti Italo, da anni sofferente di cuore (quanto avranno influito le mille emozioni sportive sempre vissute in prima linea?) aveva avuto una crisi. I figli, Claudio e il più giovane Paolo, erano in lacrime e c’era un vero e proprio andirivieni di parenti, medici, infermieri, dirigenti e amici. Brunamonti, sconvolto, giustamente dimenticò il motivo della sua visita e si preoccupò solo dello stato di salute del dirigente che per lui era quasi come un padre. Ad un certo punto però gli si avvicinò Aldo Faraglia, segretario della società, pregandolo di entrare nella stanza di Italo.
«Non mi pare il caso – replicò Roberto - deve riposare, chissà come starà».
«No, no vai pure: gli farà sicuramente piacere» insisté Faraglia.
Allora Roberto si affacciò timidamente nella stanza in semioscurità. Di Fazi era sotto le lenzuola, pallido e con le labbra violacee. Brunamonti non sapeva cosa dire e avrebbe preferito non essere lì. Ma Italo, non appena lo vide, sembrò ritrovare improvvisamente energia e vitalità per esclamare: «Que ‘bbò tu? Tantu non te àjo còsa!!!».
Chissà se Roberto, una volta passato dietro la scrivania, prima alla Virtus Bologna e poi a Roma, abbia fatto tesoro degli insegnamenti, anche se bruschi, di Italo Di Fazi? In fondo per essere un bravo dirigente occorre avere stoffa e a Italo, pur se con un stile un po’ ruvido, questa non difettava di sicuro. Come neppure a Brunamonti.